Maggio 2009

Peppino è vivo e lotta insieme a noi contro la mafia, lo stato, il capitale: azione diretta!

La mattina del 9 maggio 1978 l'Italia si sveglia con due gravi fatti: il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro e quello che i giornali descrissero subito come il "suicidio terroristico" di Peppino Impastato a Cinisi sui binari della ferrovia Palermo-Trapani.
Con una strana coincidenza, si volle subito criminalizzare la morte di Impastato descrivendola come l'involontario suicidio di un "terrorista rosso" che fatalmente - proprio quel giorno - decideva di abbandonare la sua prassi di lotta al sistema per commettere un attentato dinamitardo.
L'evoluzione delle indagini e la successiva sentenza finale, emessa significativamente dopo 20 anni, hanno poi confermato quello che è stato sempre sostenuto da chi lo conosceva e dai suoi compagni di lotta: Impastato è stato ucciso dalla mafia.
Le modalità con cui l'assassinio di Impastato venne abilmente camuffato, la coincidenza temporale con il ritrovamento del corpo di Moro e le coperture istituzionali che a tutti i livelli hanno ostacolato la ricerca della verità su entrambi gli episodi, sono tutti attrezzi del mestiere che lo stato ha sempre utilizzato per portare a compimento le sue strategie di dominio. Nella prassi del potere politico, garante ed espressione del sistema economico capitalistico, la mafia ha sempre avuto un ruolo assolutamente organico alle istituzioni: una compenetrazione grazie alla quale la Sicilia è ancora oggi terra di conquista del potere, ostaggio del ricatto e del terrorismo mafioso.
La lotta alla mafia espressa da Impastato era la lotta di un militante comunista ed era concretamente proiettata al cambiamento sociale. Niente a che vedere con il ritualismo legalitario con cui oggi si tende a riscrivere la storia della Sicilia e di chi ha lottato contro la mafia autonomamente. La legalità in quanto tale è un simulacro vuoto su cui non si può e non si deve appiattire l'azione antimafia perché la legge dello stato è sempre frutto dei rapporti di forza tra le classi e, dunque, esprime gli interessi di chi detiene il potere politico ed economico. Ecco perché mafia e stato sono facce di una stessa medaglia, e tutti quelli che sono stati ammazzati dalla mafia sono sempre stati ammazzati prima dalla politica e dall'isolamento in cui le istituzioni li hanno strumentalmente lasciati.
Oggi siamo qui non solo per riaffermare la nostra solidarietà a Peppino Impastato, ma per rilanciare la mobilitazione contro l'assedio della mafia e dello stato, contro la deriva autoritaria e fascista che si respira in
questo paese e per riaffermare che solo attraverso la ripresa della lotta di classe, il rilancio della gestione dal
basso delle lotte, la valorizzazione della azione diretta, sarà possibile respingere l'offensiva del potere e far rinascere quella coscienza collettiva ispirata alla solidarietà, alla liberta, all'uguaglianza.

Federazione dei Comunisti Anarchici - Sicilia
Nucleo "Giustizia e Libertà" della Federazione Anarchica Siciliana
Coordinamento Anarchico Palermitano

Lode alle donne afgane.

Mercoledì 15 aprile ’09, centinaia di donne afgane hanno apertamente sfidato in piazza il governo di Kabul che il mese precedente aveva approvato una legge che consente agli uomini di etnia sciita di consumare uno stupro all’interno del matrimonio. Tale legge vieta alle donne di uscire di casa, di cercare lavoro o anche di andare dal medico senza il permesso del consorte; e affida la custodia dei figli esclusivamente ai padri e ai nonni. Permette inoltre tacitamente il matrimonio di bambine e assicura agli uomini maggiori diritti in materia di eredità. La pena prevista per chi viene scoperto a trasgredire è la lapidazione.
Queste giovani donne, dimostrando un coraggio eccezionale hanno gridato tutta la loro rabbia verso un governo che non le tutela anzi le rende ancora più schiave e succubi dei maschi-padroni, eredi di una cultura tribale ed incivile che considera le donne meno che niente, mera proprietà privata, prive di diritti, serve e schiave sessuali di uomini dominati da ideologie religiose aberranti e a loro volta succubi di poteri totalitari che sfogano la loro sottomissione pubblica nel privato, rifacendosi sulle donne, considerate più deboli.
Durante la manifestazione le donne sono state prese a sassate da un gruppo di uomini che hanno inveito contro di loro con frasi offensive e minacce di morte.
Ma quando è iniziata la guerra in Afganistan non ci avevano detto che lo facevano anche per liberare le donne vittime dei Talebani? Hamid Karzai, il presidente che tanto piace ai governanti occidentali, ammirato per l’eleganza delle sue mises e per la sua barba ben curata, non doveva dare una svolta al suo paese, fargli fare il balzo in avanti, dopo che i Talebani lo avevano fatto precipitare indietro di secoli? Il risultato di tanti anni di guerra, di dolori, sofferenze ed umiliazioni non solo per le donne, ovviamente, ma per tutto il popolo afgano è questa bella legge che Karzai il filooccidentale, ha fatto approvare per ingraziarsi l’elettorato talebano in vista della campagna elettorale del prossimo agosto. Può la sete di potere fermarsi di fronte ai diritti più elementari dell’altra metà del cielo? Certo che no. Questa legge è l’ennesima dimostrazione della pericolosità del Potere e del fallimento di una guerra insensata e crudele fatta non per “esportare” la democrazia o catturare il “diavolo” Osama Bin Laden, (a proposito qualcuno ne ha sentito più parlare di recente?) come i governi occidentali volevano far credere ai loro cittadini per costringerli ad approvare l’aggressione ingiusta ad un intero popolo e a farsi ammazzare in nome di un ideale superiore, la liberazione dai cattivi talebani, prima amici e poi nemici. George Orwell questi cambi di prospettive ed opinioni li ha descritti molto bene nel suo capolavoro “1984”.
Le donne afgane meritano tutto il nostro rispetto e la nostra ammirazione. Scendere in piazza a protestare sfidando a viso aperto una società oppressiva e repressiva, come quella afgana richiede un coraggio enorme ed una forza che solo la voglia di libertà può dare. Noi anarchici conosciamo bene il valore delle parole LIBERTA’, RISPETTO per la DIGNITA’ di tutti gli esseri umani, indipendentemente dall’appartenenza sessuale, dal colore della pelle o da qualsiasi altra differenza che la natura o la cultura hanno contribuito a creare tra gli esseri umani. Esse ci guidano nella nostra pratica quotidiana, fanno parte del nostro DNA.
Avrei voluto che in questa parte del mondo ci fossero state manifestazioni a sostegno della lotta delle “sorelle” afgane. Evidentemente anche la tanto proclamata “sorority” è finita nella pattumiera ideologica in cui si raccolgono i rifiuti delle ideologie dei movimenti ex-post-sessantottini. La crisi economica, seguita all’edonismo dei decenni passati, si traduce in crisi di idee e in mancanza di solidarietà. Del resto il capitalismo selvaggio, la corsa all’arricchimento privato, il falso godimento di beni materiali, la falsa liberazione sessuale, hanno contribuito pesantemente a guastare le coscienze, lavorando nel profondo della psiche degli esseri umani rendendoli soli di fronte allo specchio della vita. Gli anni passati hanno lasciato solo macerie dietro di sé, l’umanità è più sola e disperata, più cattiva ed egoista, impaurita. La speranza di un futuro migliore, più giusto può venire da notizie come questa.
Da tante giovani donne afgane che si ribellano ad un sistema patriarcale e violento ormai fuori dalla storia, che come tutti i movimenti destinati a morire tenta l’ultimo (speriamo) colpo di coda. LODE ALLLE DONNE AFGANE.

Una individualità anarchica siciliana

Franco Serantini anarchico di vent'anni moriva a Pisa il 7 maggio 1972.

Due giorni prima, mentre partecipava ad una manifestazione antifascista di protesta contro il comizio dell'on. Giuseppe (Beppe) Niccolai del Movimento Sociale Italiano, alcuni uomini del 2° e 3° Plotone della 3a Compagnia del 1° Raggruppamento celere di Roma lo avevano barbaramente pestato a sangue.
Fermato e trasportato nel carcere del Don Bosco, il giorno seguente, nonostante manifestasse un malessere generale, era stato interrogato da un magistrato e sottoposto ad una superficiale visita medica. La mattina del 7 maggio venne trovato agonizzante nella sua cella e trasportato d'urgenza al pronto soccorso dove si spense.
Il certificato di morte parla di "ematoma intracranico post-traumatico", chi assisterà all'autopsia dichiarerà di aver visto un corpo massacrato dai colpi ricevuti durante l'arresto.
Una storia tragica di questo paese, purtroppo non l'unica, di cui gli esecutori all'epoca sono stati gli uomini preposti all'"ordine pubblico" e il mandante il governo del democristiano Giulio Andreotti e del ministro degli interni Mariano Rumor.
Pisa, come molte altre città, fu destinata ad essere il banco di prova di una campagna elettorale provocatoria e violenta, incentrata sull'ordine pubblico: unico obiettivo di questa campagna fu di portare allo scontro "militare" le opposizioni, soprattutto quelle extraparlamentari, per poter avallare la tesi degli opposti estremismi e riaffermare l'autorità dello Stato. Sono passati 37 anni e di Serantini si continua a parlare, la sua morte è ancora una ferita aperta nella storia recente della società italiana. Se ne parla, anche se, ad esempio, una parte della città di Pisa - come una parte delle forze politiche - vorrebbe una volta per tutte sotterrare di nuovo quel nome e la sua storia.
Il motivo di questa accesa guerra alla memoria è semplice: si vuole nascondere le responsabilità di chi ha guidato il Paese, promosso, organizzato ed eseguito, con cinica determinazione, quella stagione passata alla storia come "gli anni di piombo" ma che sarebbe più appropriato definire l'epoca del terrorismo di Stato e delle stragi impunite.
Troppo spesso negli ultimi decenni i "vincitori" hanno presentato il conto a quella parte politica, che viene considerata la madre spirituale del "terrorismo rosso", scordandosi, non a caso, la dinamica dei fatti e le responsabilità oggettive, anche se con obiettivi diversi, delle forze di governo, dei servizi segreti interni ed esteri, degli apparati polizieschi e dei neofascisti nello scatenamento di quella stagione di violenza.
Oggi sono i politici che vogliono fare la storia e le loro fonti predilette sono le sentenze dei tribunali e i media prezzolati ma in realtà la storia di quel decennio è ancora in gran parte da scrivere. Grazie a molti la memoria di Serantini non si è persa, vive nei cuori delle donne e degli uomini che continuano a credere e a battersi per gli ideali di giustizia sociale e libertà per i quali ha vissuto Franco.
La memoria di Serantini resiste, sui muri delle città, nelle canzoni, nei teatri, nei libri e nelle pagine web.
Recentemente, un giovane musicista d'origine pisana, Francesco Filidei, gli ha dedicato anche un'opera che è stata presentata al Festival musicale di Montecarlo.
Una memoria che giorno dopo giorno, testardamente, ricorda la scomoda verità: Franco Serantini, per la sua scelta di campo antifascista e libertaria, fu ucciso due volte: la prima da coloro che ne devastarono il corpo, la seconda da uno Stato che per scelta politica non volle fare "giustizia", perché ovviamente lo Stato non può processare se stesso.

Franco B.

Primo maggio: difendere, allargare e condividere le lotte.

Il Primo maggio, ieri come oggi, significa rispetto per le mobilitazioni dei lavoratori di tutto il mondo che hanno sofferto, pagando anche con le proprie vite, nelle lotte per cambiare la condizione di uomini e donne sottoposte al controllo del capitalismo nel mondo.
Noi comunisti anarchici rivendichiamo la lotta per un cambiamento radicale della società verso una società di libertà, uguaglianza e solidarietà, ma non possiamo dimenticare che in molti paesi non si è ancora raggiunto il livello minimo di garanzie di espressione sindacale, e c'è chi lavora a condizioni e salari subumani. Il nostro pensiero oggi va a queste realtà con il rafforzamento delle reti di sostegno alle lotte dei popoli di tutto il mondo.
Nei paesi dell’Occidente, "culla delle libertà", il destino di uomini e donne che lavorano è diventato negli ultimi due decenni sempre peggiore; precarizzazione, flessibilità, parole magiche sposate da destra e sinistra in tempi non sospetti, sono ora sotto gli occhi di tutti nei loro effetti per i durissimi colpi di una crisi nata proprio dalla diminuzione dei salari e dalla distruzione di posti di lavoro.
Gli Stati, i vertici del G8 lo sanno e scelgono la repressione, l’oppressione e lo sfruttamento. Scelgono di salvare le banche prima di tutto, le aziende prima di tutto. Le lavoratrici ed i lavoratori possono aspettare che intanto possono continuare a indebitarsi per poter vivere.
Ma anche in tempi di dura crisi il Primo maggio continua a ricordare che sono le lotte dei lavoratori, autorganizzate e federate, che conquistano i diritti. Che non sono mai acquisiti per sempre.
Ma che vanno difesi, allargati e condivisi con le lotte.
Perché, e le mobilitazioni in tutto il mondo lo hanno ricordato in questi mesi di crisi, le lotte di massa, dal basso, autogestite, sono nel sangue e nella memoria storica de movimento dei lavoratori e contrastano i dirigenti del capitalismo internazionale ed i governi di tutto il mondo in nome della giustizia sociale e della difesa degli interessi materiali del mondo del lavoro.
Il compito dei comunisti anarchici e dei rivoluzionari per la libertà e l'uguaglianza è di raccogliere questa memoria e portarla nelle lotte del presente, quale forza agente parte costitutiva del movimento dei lavoratori, un movimento che deve diventare una vera forza rivoluzionaria in grado di distruggere il capitalismo e inaugurare una nuova era di libertà, solidarietà e uguaglianza.

1 Maggio 2009

Alternative Libertaire (Francia)
Federazione dei Comunisti Anarchici (Italia)
Workers Solidarity Movement (Irlanda)
Zabalaza Anarchist Communist Front (Sud Africa)

Basta morti sul e dal lavoro.

il 28 aprile si è tenuta la prima udienza del processo Truck Center di Molfetta.
Riportiamo una breve cronaca di esso. Questo processo deve diventare altrettanto importante come quello della Thyssen - anche se in una piccola realtà come Molfetta questo è difficile -.
La rete nazionale per la sicurezza si mobiliterà sin dal primo giugno a livello regionale: “Prenderemo nelle nostre mani la lotta perchè i lavoratori e i familiari abbiano una voce e una forza d'impatto per far venire fuori i veri responsabili - che ora sono ancora fuori dal processo -, e sin da adesso lanciamo l'appello regionale perchè il 1° giugno si sia tutti a Molfetta”.

Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro - sede di Taranto - 3471102638

Molfetta - All'esterno del Tribunale c'è la foto di Biagio Sciancale, incollata ad una striscione che grida giustizia, ad accogliere quanti hanno deciso di assistere al processo che darà nome e volto ai responsabili della morte di Vincenzo Altomare, 64 anni, Luigi Farinola, 37, Michele Tasca, 20, Guglielmo Mangano, 44 titolare e operai della Truck Center, e dello stesso Biagio, 22 anni. I cinque persero la vita dopo essersi calati, uno dopo l'altro, in una cisterna che doveva essere lavata. Era il 3 marzo del 2008. Biagio è una delle cinque morti bianche di quella tragedia del lavoro. Quello striscione è stato sistemato lì, dagli amici del giovane e dal suo papà, Stefano.
Nell'aula delle udienze penali, della sezione distaccata di Molfetta, non c'è spazio. Gli avvocati sono di fronte al giudice monocratico, Lorenzo Gadaleta. Rappresentano gli imputati (Mario Castaldo e Alessandro Buonopane, dirigenti di Fs Logistica, proprietaria della cisterna in rimessaggio alla Truck center; Pasquale Campanile, dirigente della società La 5 Biotrans, incaricata del trasporto, e il suo autista Filippo Abbinante, che trasportò la cisterna, la Truck center, la Fs Logistica e La 5 Biotrans di Bari) e i familiari delle vittime.
Davanti, accanto agli avvocati, sempre di fronte al giudice, c'è anche il sostituto procuratore della Repubblica, Giuseppe Maralfa, la pubblica accusa. Ci sono anche i parenti delle vittime. Tutti insieme. «Da quando mio figlio è morto - afferma Grazia Sciancale pore, mamma di Michele Tasca – io sono morta con lui.
Seguirò tutte le udienze. Voglio guardare negli occhi le persone che hanno causato tutto questo. Anni fa ho perso mio marito. Ma la morte di un figlio è tutta un'altra cosa. Per gli altri miei figli e per la gente devo fingere che tutto sia passato. Ma quando sono sola, non posso mentire a me stessa».
Sono le 9:30 quando il processo, forse il più imponente per numero di imputati (sette tra persone fisiche e aziende), di avvocati coinvolti, 14, di costituzioni di parte civile presentate, 20, celebrato a Molfetta negli ultimi anni ha inizio. La prima è una udienza «filtro». Non ci sono testi.
Si sbrigano le fasi preliminari. L'avvocato dell'INAIL, Francesco Fatone, già costituitasi parte civile, chiede che venga ammessa la richiesta di citazione dei responsabili civili nei confronti della Truck Center.
L'istanza, al termine dell'udienza verrà rigettata. Stessa richiesta viene avanzata dagli altri legali ma nei confronti della Fs Logistica e de La Cinque Biotrans. Sarà accolta. Al termine dell'udienza il giudice stabilisce anche il calendario delle udienze: due a settimana, tutti i lunedì, a partire dal 1 giugno, e i venerdì. Perché questo processo «ha precedenza assoluta».
L'avv. Marcello Magarelli, legale di Giulia Caradonna, vedova di Luigi Farinola, commenta all'esterno dell'aula: «si prospetta un processo rapido e giusto». Il primo a salire sul banco dei testimoni sarà Cosimo Ventrella, unico dipendente della Truck Center a non essersi calato nella cisterna ma rimasto intossicato. E intanto già cominciano a delinearsi le strategie difensive.
Maurizio Altomare, difensore Truck Center, sentenzia: «in questo processo non sono presenti i reali responsabili dell'incidente». E c'è chi ipotizza di far riaprire le indagini con un esposto per trascinare in giudizio altre persone e altre società.

Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro

I sette operai della Thyssen-Krupp uccisi di nuovo dai giornalisti italiani che non scrivono.

In seguito all’incendio divampato il 6/12/2007, sulla linea di ricottura e decapaggio dello stabilimento Thyssen-Krupp di Torino (d’ora in avanti TKTO), che, inizialmente, causò la morte di 1 lavoratore, l’ustione di altri 7 di cui 6 in modo così grave che decedettero nei giorni seguenti, il sottoscritto prof. ing. Massimo Zucchetti, ordinario di Sicurezza e Analisi di Rischio presso il Politecnico di Torino, è stato nominato Consulente Tecnico di Parte Civile nel procedimento Penale in corso.
La presente relazione costituisce un iniziale contributo all’analisi.
Da quanto riportato dai fatti e dalle testimonianze si può riassumere quanto segue:
- La linea 5 funzionava in perenne palese violazione delle norme di sicurezza relative agli impianti a rischio di incidente rilevante, in quanto - ad esempio - in costante presenza di olio sul fondo dell’impianto, di residui di carta oleati ovunque, di fiamme libere e piccoli incendi praticamente costanti, in mancanza di squadre antincendio addestrate, con gli estintori scarichi, eccetera.
- La linea 5 funzionava oltre i normali regimi per sopperire a richieste pressanti di produzione non ottempera bili dal solo stabilimento di Terni. Gli operai erano costretti a turni straordinari massacranti.
- La linea 5 presentava evidenti malfunzionamenti dovuti ad usura e scarsa manutenzione, primo tra tutti le perdite di olio, e i frequenti guasti di tipo elettrico e meccanico.
- I vigili del fuoco, gli addetti ai gruppi di lavoro sulla sicurezza, i periti dell’assicurazione avevano ripetutamente raccomandato nel recente passato l’adozione di un sistema automatico di spegnimento per la linea 5, in conformità a quanto previsto per impianti soggetti a rischio rilavante di incendio come quello in esame. Questa raccomandazione, adottata per analoghi impianti presso altri stabilimenti della ditta, era stata disattesa e posposta, in quanto la linea stava per essere chiusa e trasferita a Terni entro breve.
- La manutenzione sulla Linea 5 era insufficiente ed era peggiorata nell’ultimo periodo, in vista della prospettata chiusura entro breve tempo. Le squadre di manutenzione si erano ridotte e le frequenze degli interventi riguardavano per lo più la riparazione di guasti. Ancora, la sostituzione di alcuni pezzi meccanici non avveniva con il montaggio di pezzi nuovi ma con recuperi da altre linee o spostamenti sulla linea stessa.
- Le squadre di sicurezza e antincendio erano insufficienti o inesistenti, erano costitute da personale che non aveva completato (in nessun caso, neppure una persona) l’addestramento antincendio previsto dalla legge. Le procedure di emergenza e antincendio erano carenti e l’intero apparato di sicurezza al riguardo era in patente violazione con le prescrizioni di legge.
- Gli operai della linea 5 dovevano frequentissimamente intervenire con estintori manuali per spegnere incendi che continuamente si formavano sulla linea, senza sospendere la produzione, in violazione con il loro mansionario e le procedure.
- In caso di incendio di “grave entità” la procedura prevedeva non già l’immediato appello dei VVFF, ma la composizione di un numero di telefono per la chiamata della squadra antincendio, peraltro inadeguata in quanto non formata con appositi corsi completi e sprovvista di mezzi adeguati di spegnimento.
- Non vi era alcuna prescrizione o specifica scritta o procedurale che indicasse quando un incendio era di “grave entità”. Le indicazioni dell’azienda erano di provare a spegnere con ogni mezzo l’incendio da parte degli operai con gli estintori prima di dare l’allarme.
- Era fortemente radicato il concetto per cui si doveva sopperire a qualsiasi problema evitando di interrompere la produzione. I pulsanti di emergenza non dovevano mai venire azionati per evitare la interruzione della produzione. Gli operai avevano ricevuto espresse indicazioni al riguardo dall’azienda. Emerge chiaramente, anche dall’analisi di alcuni incidenti, che vi era la indicazione generalizzata ad affrontare situazioni di rischio particolarmente elevato in modo autonomo e non in ottemperanza alle misure di sicurezza, che non erano state comunicate ai lavoratori.
- Il pulsante di emergenza non toglie l’alimentazione elettrica alla pompa oleodinamica , quindi l’olio rimane
sempre in pressione fino ai banchi valvole anche in caso di attivazione dei pulsanti di emergenza. Anche la
pressione di questi pulsanti, fortemente sconsigliata dall’azienda per non interrompere la produzione, non avrebbe evitato comunque l’incendio e l’incidente.
- I sistemi individuali di spegnimento (estintori) erano al momento dell’incidente per la maggior parte scarichi o inutilizzabili.
- Nessuno dei presenti all’incidente aveva ricevuto alcuna formazione specifica sul tipo di intervento da effettuare e sulle procedure da seguire in caso di un incendio di tale entità.
- Si erano verificati nel recente passato eventi incidentali analoghi presso altri stabilimenti dell’azienda, senza che nessun rimedio venisse adottato a seguito di questi incidenti sulla linea 5.
- Alcuni sistemi di sicurezza automatici che segnalavano la presenza di carta spuria (costituente grave pericolo) nell’impianto a seguito di malfunzionamento erano al momento dell’incidente esclusi manualmente o addirittura guasti, in palese contrasto con le norme di sicurezza.
- Nel luogo ove si è verificato l’incendio non vi era sistema automatico di rilevazione incendi In ultima analisi, lo scrivente si stupisce come l’evento incidentale che ha causato la morte dei sette operai si sia verificato con tale ritardo, viste le condizioni in cui funzionava l’impianto, ovvero in palese violazione con ogni norma di sicurezza. Tutto quanto era umanamente possibile per rendere provabilissimo il disastro era stato fatto o omesso dall’azienda con incredibile e costante pervicacia. Una volta partito, la dinamica dell’evento incidentale è stata inevitabile, dati gli strumenti e la formazione dati agli operai a quali nulla si può imputare se non l’aver accettato, per non perdere il posto di lavoro, di lavorare in un impianto in simili condizioni.

Relazione di Massimo Zucchetti - da lsmetropolis.org

Il Vaticano e l'energia pulita.

Come puro e semplice atto d'imposizione dello Stato italiano, che continua grazie i suoi apparati istituzionali nella sua folle corsa verso il baratro nonostante l'impegno illimitato da parte della classe operaia, sempre più oppressa, anche quest'anno le lavoratrici ed i lavoratori italiani, almeno coloro i quali hanno la fortuna di avere un lavoro "regolare", in questo periodo sono intenti a presentare la documentazione per la loro dichiarazione dei redditi. Molti di loro evolveranno volutamente il loro 8 e 5 per mille alla chiesa cattolica, convinti che essa utilizzerà queste somme per fare opera di carità. Ma queste persone, o comunque molti di loro, non sanno che la chiesa cattolica utilizza quei fondi per fare esclusivamente business, cioè profitto. E questo solo per soddisfare la sua insaziabile sete di potere. Perché scriviamo questo? Come facciamo a sostenere questa tesi? Basta leggere l'articolo, semi-nascosto, che è uscito il 24 aprile sul quotidiano "La Sicilia". Riportiamo per intero:

“Vaticano-Italia impianto solare da primato. Città del Vaticano.
Il Vaticano e l'Italia saranno presto all'avanguardia a livello mondiale in fatto di produzione di energia pulita.
E' infatti ormai alle fasi finali di studio da parte del Vaticano il progetto per un impianto di energia fotovoltaica che sarà il più grande del mondo. I lavori dovrebbero partire entro due-tre mesi. Il costo previsto è di 500 milioni di euro. Il luogo prescelto è l'area di Santa Maria di Galeria dove già si trovano gli impianti della Radio vaticana. Il Vaticano non procederà da solo ma con lo Stato italiano, anche perché il progetto presenta aspetti tecnici come la gestione dell'energia prodotta che lo Stato vaticano non può affrontare da solo. L'impianto, inoltre, consentirebbe all'Italia di beneficiare di una quota significativa di energia rinnovabile che permetterebbe al nostro Paese di avvicinarsi agli obiettivi stabiliti dall'UE del 20% di fonti rinnovabili, un tetto che per l'Italia è stato ridotto al 17%.”.

Ora, è chiaro che il Vaticano altri non è che una Azienda, Ditta, Impresa o altro ancora (chiamatela come vi pare), e come tutte le altre realtà italiane che ogni anno pagano il dazio (tasse) allo Stato, anch'essa dovrebbe pagare sui propri profitti, cosa che invece purtroppo non avviene. Santi privilegi. . . amen.

F.sco63

La propaganda governativa anche al cinema.

Non restando affatto sorpresi che la propaganda governativa e berlusconiana sia portata avanti da giornalisti al suo servizio, troviamo oggi la prova che la propaganda governativa viene esercitata anche al cinema. Infatti il film da poco uscito "Generazione 1000 euro" tratta la tematica del precariato e la situazione economica nella vita dei "trentenni, carini e senza soldi", come sostiene una dei suddetti giornalisti sulla pagina di critica cinematografica del giornale "La Sicilia". Il film e l'articolo spingono i giovani, sull'onda del modo di affrontare il problema del precariato del governo Berlusconi, a prendere la loro situazione "abbracciando la loro precarietà” come sostiene sempre suddetta giornalista. A detta del regista bisogna reagire con "ottimismo e grinta", questo film vuole "raccontare il precariato vissuto ma anche contrastato con sarcasmo o con ottimismo o con grinta o con attaccamento morboso al lavoro". Per uno degli attori protagonisti del film "non sono precari anche gli attori? La differenza è che gli attori lo scelgono, anche per incoscienza, molti poveracci lo subiscono".
Questa la versione di affrontare il precariato, che dice di affrontarlo con ottimismo e grinta, dice di affrontarlo con positività e attaccamento morboso al lavoro, ma non si rendono conto, o fanno finta di non rendersi conto, del problema sociale che spinge tantissime persone sul lastrico, che impedisce non solo ai "trentenni, carini e senza soldi" ma anche ai padri e alle madri di arrivare a fine mese. Problema che aumenta lo sfruttamento e il ricatto padronale che i lavoratori di oggi sono costretti a subire, perchè i lavoratori non hanno scelto come gli attori, si sono trovati sotto lo sporco gioco del capitalismo, sotto il ricatto salariale e la limitazione delle loro libertà, la continua minaccia della morte sul lavoro, per una mancata di sicurezza sui posti di lavoro. Questo modo di affrontare la precarietà, del tutto confacente con quello del governo Berlusconi, è solo un modo per cambiare la visione tragica e nera che oggi c'è sul problema del precariato, è un modo di affrontarlo del tutto confacente alle politiche padronali che spingono alla positività, prenderla alla leggera, mentre tu sei in continuo stato di instabilità economica e loro si arricchiscono alle tue spalle, mentre tu sei in continuo ricatto di possibile disoccupazione e tra un mese, tra tre mesi o tra un anno non sai se avrai o no i soldi per campare e un posto di lavoro. Non serve che governo e padroni tentino di distorcere la realtà a loro favore, conosciamo bene questa tecnica di manipolazione mediatica, messa in atto in altri campi dal suddetto governo, come con l'immigrazione creando lo spauracchio del rumeno stupratore, per nascondere chi sono i veri nemici, chi i veri delinquenti. Tecnica mediatica e di manipolazione mentale che porta agli occhi di tutti una realtà che non esiste, perchè nella vita reale è difficile tirare avanti sotto lo sfruttamento padronale, perchè i lavoratori nelle condizioni di precariato non sono come gli attori e quando prendono lo stipendio a fine mese non trovano molti zeri sul loro salario, e già tanto se ne trovano tre di zeri.
Questo modo di affrontare il precariato è solo un altro dei sistemi di manipolazione mentale messo ad opera dal sistema per impedire che i lavoratori prendano coscienza, per impedire che ci si renda conto del sistema fallimentare e dello sfruttamento atroce messo ad opera da sempre dal sistema capitalista, sfruttamento dell'uomo sull'uomo contro la quale bisogna lottare, perchè non ci siano più differenze economiche, perchè non ci siano più servi e padroni, perchè trionfi realmente l'eguaglianza economica e la giustizia sociale.
Dobbiamo renderci conto della realtà guardando la vita e la situazione difficile di oggi, dobbiamo prendere coscienza e lottare sempre da e con i lavoratori, contro i padroni e i governanti di turno che da sempre fanno la politica a loro favore, dobbiamo costruire dal basso le iniziative sui luoghi di lavoro e dobbiamo portare avanti l'alternativa di una nuova società, basata sulla libertà e sull'uguaglianza, dobbiamo portare avanti l'alternativa libertaria.

Roberto per la sezione “Delo Truda FdCA - Palermo